domenica 24 aprile 2011

Motivazioni umanitarie e ambientali della scelta vegan



In tutto il pianeta, quasi un miliardo di esseri umani, soprattutto bambini, soffre la fame e 40.000 muoiono di fame ogni giorno. La fame nel mondo è un argomento scomodo da affrontare, perché, già oggi, ci sarebbe abbastanza cibo per sfamare tutti.

«La terra ha abbastanza per le necessità di tutti,
ma non per l'avidità di pochi.»
- Gandhi -

La fame nel mondo non è causata dalla mancanza di cibo - le produzioni attuali di cereali e legumi sono più che sufficienti - bensì dalla sua disomogenea distribuzione, dovuta a problemi di natura politica ed economica, nonché dagli enormi sprechi di risorse, provocati dall’allevamento intensivo finalizzato alla produzione di cibo animale.


Trasformare prodotti vegetali in prodotti animali, anziché utilizzare queste risorse direttamente per il consumo umano, è una delle maggiori cause di spreco e di inquinamento, cui contribuiscono soprattutto i paesi industrializzati.

«Rinunciare alla carne inoltre è per me anche una forma di solidarietà e responsabilità sociale. In un mondo che ha fame, il consumo di carne costituisce uno spreco enorme: se oltre 820 milioni di persone soffrono la fame è anche perché gran parte del terreno coltivabile viene riservato al foraggio per gli animali da carne. I prodotti agricoli a livello mondiale potrebbero essere sufficienti a sfamare tutti, se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare gli animali da allevamento.» 
- Umberto Veronesi –

Gli animali da allevamento consumano, infatti, molte più calorie, ricavate dai mangimi vegetali (composti da cereali e legumi appositamente coltivati), di quante ne producano sotto forma di carne, latte e uova, perché la maggior parte di esse serve semplicemente a sostenerne il metabolismo, anziché convertirsi in tessuti commestibili; in altre parole, essi sono del tutto inefficienti nel convertire alimenti vegetali in alimenti animali destinati all’alimentazione umana:     un ettaro di terreno assegnato all’allevamento bovino rende in un anno 66kg di proteine animali, contro i 1848kg di proteine vegetali (28 volte di più!), che si otterrebbero adibendo lo stesso terreno alla coltivazione della soia per il nutrimento umano; analogamente, riguardo la conversione da cereali a proteine animali, si calcola che, mediamente, per produrre 1 kg di carne servano 15 kg di cereali.



Per non parlare del consumo di energia e di acqua. Si stima che il 60% circa dell’energia consumata sul pianeta, ottenuta in gran parte dai combustibili fossili - petrolio e carbone - inquinanti, venga utilizzata dall’industria alimentare e che la produzione di alimenti animali ne richieda di più in assoluto: per produrre 1 caloria di proteine partendo dal grano vengono spese 2.2 calorie di combustibile fossile, mentre per i cibi animali ne servono, in media, 25 di calorie, cioè 11 volte di più!
L’allevamento intensivo di animali comporta un enorme consumo anche di acqua potabile: il 70% dell'acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura, i cui prodotti servono in gran parte per nutrire gli animali d'allevamento; la produzione di cibo animale richiede un quantitativo di acqua molto maggiore della produzione di cibo vegetale: per produrre 1kg di carne di manzo si sprecano 100.000 litri d’acqua, mentre per 1kg di frumento ne occorrono solo 900, per 1kg di soia 2.000 e poco meno per 1kg di riso. Secondo il settimanale Newsweek, per produrre 5kg di carne bovina, che non bastano nemmeno a coprire il consumo settimanale di una famiglia media americana, serve tanta acqua quanta ne consuma la stessa famiglia in un anno!


L’acqua è utilizzata non solo per coltivare i foraggi e abbeverare gli animali, ma anche per pulire le stalle, i macelli e, nel caso della produzione di latte, le sale di mungitura e i relativi macchinari. E questo, nonostante oltre un terzo della popolazione mondiale non abbia a disposizione una quantità adeguata di acqua potabile.


Oltre ai grossi sprechi di risorse, fra le conseguenze dannose per l’ambiente dell'allevamento intensivo, si annoverano anche l'inquinamento del terreno e delle acque, la produzione di gas serra, la deforestazione, il depauperamento del terreno e l'impoverimento della biodiversità.


Gli allevamenti intensivi provocano un grave inquinamento del terreno e dell’acqua, sia chimico, a causa dell’enorme impiego di fertilizzanti e pesticidi per la coltivazione del foraggio, sia organico, a causa delle deiezioni animali, le quali vengono scaricate nel terreno e nelle falde acquifere in quantità tali – gli allevamenti italiani producono annualmente oltre 10 milioni di tonnellate di deiezioni animali, mentre quelli americani oltre un miliardo - che l’ambiente circostante non è in grado di smaltire e che non possono essere eliminate nemmeno con l’ausilio di depuratori, già dimostratisi inefficaci nel risolvere il problema. 




I composti azotati presenti nei fertilizzanti e nelle deiezioni animali, in particolar modo ammoniaca - almeno l’80% delle emissioni di ammoniaca derivano dall’allevamento – e nitrati, sono tra i diretti responsabili degli ormai tristemente noti fenomeni delle piogge acide, che causano gravi danni alle foreste e ai suoli di tutto il mondo, e dell’eutrofizzazione delle
acque, un’abnorme proliferazione di alghe e fitoplancton, i quali, decomponendosi, portano a una drastica riduzione del contenuto di ossigeno e al conseguente degrado dell’ecosistema acquatico per asfissia.


Va poi detto che l’allevamento intensivo ha profondamente mutato l’alimentazione degli animali e, di conseguenza, la composizione chimica delle loro deiezioni, per cui esse sono caratterizzate, da un lato, da un basso contenuto di sostanza secca e, dall’altro, da un alto contenuto di inquinanti, come nitrogeno, fosforo - che contribuisce anch’esso all’eutrofizzazione - metalli pesanti (zinco e rame), residui di antibiotici e ormoni, che sono somministrati artificialmente agli animali d’allevamento e che possono raggiungere nel terreno concentrazioni notevoli, al limite della fitotossicità.                      
I microrganismi che si trovano nelle deiezioni animali, inoltre, possono essere molto pericolosi per la salute umana; il rischio di un aumento dell’incidenza di infezioni, dovute a microrganismi patogeni contenuti nelle deiezioni animali, è estremamente concreto, come dimostrano i dati epidemiologici relativi all’incidenza - 5 volte superiore alla media nazionale! - della salmonellosi nella provincia di Forlì, una delle zone in cui l’allevamento intensivo è maggiormente praticato.


Un altro aspetto fortemente negativo dell’allevamento, poco conosciuto, è la sua incidenza sull’effetto serra; esso contribuisce in maniera rilevante all’innalzamento globale della temperatura, innanzi tutto, a causa del suo enorme bisogno di energia, in gran parte prodotta con combustibili fossili: per produrre la quantità di carne consumata in un anno da una famiglia americana media di 4 persone, è necessario utilizzare 1170 litri di combustibile, con il conseguente rilascio nell’atmosfera di 2.5 tonnellate di anidride carbonica, che è la quantità all’incirca emessa in 6 mesi da un’automobile di media cilindrata; in secondo luogo, perché implica una notevole serie di attività inquinanticoncernenti soprattutto il trasporto e laconservazione dei prodotti di origine animale; infine, perché contribuisce, direttamente e in maniera rilevante, all’emissione di gas serra, a causa dei gas prodotti dal sistema digerente degli animali ed emessi per flatulenza ed eruttazione dagli stessi.


A questo proposito, la FAO ha reso noto che il settore zootecnico è responsabile del 18% delle emissioni totali di gas serra dovute alle attività umane nel mondo (35-40% delle emissioni di metano
                              
a cura del Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione (NEIC)

che è decisamente più dannoso dell’anidride carbonica, dato che una sua molecola cattura oltre 25 volte più energia solare di una molecola di CO2, e 65% delle emissioni di ossido di azoto, che è circa 300 volte più dannoso dell’anidride carbonica per il riscaldamento globale): una percentuale maggiore di quella dovuta all'intero settore dei trasporti!

Uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Science and Technology” da due ricercatori della Carnegie Mellon University, che si occupano di ‘consumo sostenibile’, mostra, in generale, che l’impatto sull’ambiente e sul clima delle scelte di consumo dei singoli individui è dovuto principalmente al cibo che ciascuno sceglie di mangiare e, in particolare, che la scelta di consumare solo prodotti locali, la cosiddetta ‘spesa a chilometri zero’, di cui ultimamente si parla tanto, ha un’incidenza limitata sulla riduzione delle emissioni di gas serra, mentre, su di essa, è molto più impattante la scelta di consumare solo cibi vegetali, consentendo un risparmio fino a 8 volte maggiore!

«Non mangiare carne, va’ in bici, sii un consumatore frugale - ecco come fermare il riscaldamento globale.»
- Rajendra Pachauri, premio Nobel e direttore dell’IPCC, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite -


Un ulteriore contributo degli allevamenti intensivi all’effetto serra proviene dalla deforestazione, che è un altro aspetto, anch’esso poco conosciuto, del loro impatto ambientale: le foreste pluviali vengono abbattute non tanto per il legname, com’è credenza comune, quanto per ottenere terreni da adibire alla coltivazione di mangimi oppure pascoli per l'allevamento di bovini, destinati a fornire carne da esportare nei paesi più industrializzati, e il 20% dell’anidride carbonica emessa in atmosfera è prodotta dalla combustione del legname derivante da queste operazioni di disboscamento.



Studi scientifici hanno dimostrato che, per produrre un solo hamburger, si abbattono 5 metri quadrati di foresta tropicale.

http://www.saicosamangi.info/download/pieghevoleImpAmb.pdf

Attualmente, circa il 70% della foresta Amazzonica è occupata da pascoli per il bestiame, con la conseguente scomparsa della sua ricca e unica biodiversità; secondo l’ultimo rapporto FAO, il 10% delle specie protette rischia l’estinzione per cause riconducibili direttamente agli allevamenti intensivi.

La conseguenza della deforestazione e del successivo sfruttamento intensivo dei terreni adibiti a pascolo è la loro desertificazione: a causa dell’eliminazione della vegetazione naturale, il suolo è, infatti, esposto all’azione diretta degli agenti atmosferici, i quali rapidamente spazzano via l’humus, che ne costituisce la parte fertile; inoltre, l’eccessiva concentrazione di capi di bestiame, che compattano il suolo con gli zoccoli e strappano la vegetazione erbacea, fa sì che il terreno non sia più in grado di trattenere l’acqua piovana, la quale concorre a trascinare via l’humus.




Nell’ultimo rapporto diffuso dall’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, pubblicato il 2 giugno 2010, gli scienziati evidenziano un rapporto strettamente proporzionale tra la dieta mondiale e i problemi ambientali e alimentari che affliggono il pianeta, sottolineano come i prodotti animali abbiano un impatto sull’ambiente e sulla fame nel mondo nettamente superiore rispetto ai prodotti vegetali e mettono in guardia riguardo ai rischi della prospettiva che, all’incremento, tuttora in corso, della popolazione mondiale, corrisponda un parallelo aumento dei consumi dei prodotti di origine animale; secondo gli studiosi questa prospettiva avrebbe conseguenze ambientali devastanti, prevenibili solo con un drastico cambiamento delle abitudini alimentari mondiali, consistente nella rinuncia all’utilizzo, da parte di tutti, dei prodotti animali





Testi consultati

Gli allevamenti, i trasporti e il vegetarismo  OIPA
L’idea Vegetariana” mensile n.196 dell’Associazione Vegetariana Italiana
Riflessioni sul benessere animale e le problematiche ambientali connesse” Tesi di laurea triennale di Eva Chiara Carpinelli


Link consultati























mercoledì 20 aprile 2011

Motivazioni nutrizionali della scelta vegan



Affrontando la nutrizione da un punto di vista puramente scientifico, ci sono molte buone eragioni per evitare il cibo animale.

Fra queste, la grande quantità di sostanze nocive costantemente somministrate agli animali d’allevamento, le quali si concentrano nei loro tessuti e soprattutto nelle loro parti grasse, come la carne e il latte, che finiscono sulle nostre tavole; si tratta di farmaci, in particolare antibiotici, la cui somministrazione - che si rende necessaria per il 

trattamento delle malattie infettive contratte di continuo dagli animali, abitualmente allevati, senza alcun rispetto per le loro esigenze fisiologiche e comportamentali, in spazi ristretti e in condizioni igieniche non idonee - favorisce lo sviluppo di ceppi batterici resistenti agli stessi ed è stata messa in relazione con il crescente e preoccupante fenomeno della resistenza ai trattamenti antibiotici nell’uomo, e ormoni - come il BGH, l'ormone geneticamente modificato della crescita, somministrato a un terzo



delle mucche negli USA per aumentare la produzione di latte, il quale, secondo il Prof. Samuel Epstein dell’Università di Chicago, incrementerebbe il rischio di cancro al seno, al colon e alla prostata - teoricamente vietati in Europa, ma che, in Italia, possono essere somministrati a scopo terapeutico e nel periodo successivo al parto’, con l’effetto di accelerare la crescita dei tessuti muscolari, “gonfiando” rapidamente l'animale; nonché di fertilizzanti, di pesticidi - presenti come residuo nelle materie prime usate in mangimistica - e di materiali di scarto, come penne trattate con calce, paglia trattata con ammoniaca, residui della lavorazione industriale dello zucchero e dei semi oleosi, che possono essere aggiunti ai mangimi in notevoli quantità per abbassarne i costi; a questo proposito, si commenta da sola la testimonianza di un allevatore americano di suini, riportata nel testo “Diet for a New America” di John Robbins: «Gli diamo persino da mangiare la loro stessa cacca, mescolata ovviamente con antibiotici, sulfamidici e altre schifezze da laboratorio. E, d’altra parte, che agli animali vengano abitualmente somministrati alimenti non idonei, con conseguenze negative per il benessere animale e, di riflesso, per la salute umana, ce l'ha insegnato l’encefalite spongiforme bovina (BSE) o morbo della ‘mucca pazza’ e ce l'insegnano le più recenti influenze aviaria (SARS) e suina.
Altre sostanze tossiche presenti nei tessuti animali sono quelle prodotte dalla paura degli animali stessi al momento della macellazione (adrenalina, acido lattico, etc.) - essi hanno consapevolezza del fatto che stanno per essere assassinati, sentono l'odore del sangue dei loro compagni e spesso assistono alla loro morte - e le tossine cadaveriche, che si sviluppano alla morte degli animali (putrescina, cadaverina, scatolo, etc.), le quali passano nel sangue umano e devono essere eliminate dall’organismo attraverso fegato e reni, intaccandone l'efficienza.

Altre ottime ragioni per evitare, o ridurre comunque al minimo, il cibo animale, risiedono nel fatto che questo presenta in maniera sbilanciata, non solo le qualità nutritive - mancano i carboidrati, componente principale di un’alimentazione equilibrata, e le fibre, che aiutano a mantenere il buon funzionamento dell’intestino, garantendo, quindi, una migliore assimilazione di cibo e una migliore eliminazione di tossine, mentre sono presenti grassi in qualità elevate, non giustificabili col nostro stile di vita sedentario - ma anche quelle energetiche: il cibo animale tende, infatti, a creare calore e contrazione (yang) nel corpo e questo porta, per ritrovare l’equilibrio, a desiderare alimenti dall’effetto espansivo (yin), come zucchero e alcolici.

I cereali integrali, per contro, sono l’alimento più equilibrato per l’essere umano: dal punto di vista nutritivo, sono un’importante fonte di carboidrati, fibre, sali minerali, come ferro, zinco, magnesio e selenio, vitamine del gruppo B, tra cui l’acido folico - che ha una grande importanza in gravidanza, in quanto è in grado di prevenire lo sviluppo di malformazioni fetali, come la spina bifida - e vitamina E; hanno un discreto contenuto di proteine e sono poveri di grassi; dal punto di vista energetico, hanno la polarità dinamica ideale, in quanto il chicco rappresenta contemporaneamente il frutto e il seme della pianta, il suo risultato finale e il suo nuovo inizio.


Anche le verdure di stagione e i legumi hanno qualità indiscutibili, per quanto riguarda le sostanze nutritive: le verdure sono la fonte principale e insostituibile di vitamine e sali minerali, mentre i legumi rappresentano un’importante fonte di proteine, fibre, vitamine E e del gruppo B, sali minerali, come ferro, calcio, magnesio, selenio, potassio e zinco, sostanze fitochimiche e acidi grassi essenziali, nonché di carboidrati, mentre sono poveri di grassi.


Di seguito, vengono presi in considerazione i diversi nutrienti, dando particolare enfasi a quelli solitamente - e ingiustamente - ritenuti inadeguati, nell’ambito di una dieta priva di alimenti di origine animale.


Carboidrati, proteine e sali minerali.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, delle calorie che consumiamo, fino all’80% può essere assunto sotto forma di carboidrati e solo il 5% deve essere assunto sotto forma di proteine (questa percentuale sale al 6% per le donne che allattano e per i bambini e al 12% secondo l’Istituto Nazionale della Nutrizione); può sembrare poco, ma non lo è affatto, se si considera che, nel periodo della vita in cui abbiamo più bisogno di proteine, lo svezzamento, l’unico nutrimento è il latte materno, il quale è composto principalmente da carboidrati e grassi e solo per il 3% da proteine!
La quantità di proteine attualmente consumata in Italia ammonta al 14% circa, per cui eccede il nostro reale fabbisogno. E’, tuttavia, diffusa la preoccupazione di non avere un adeguato apporto proteico e questo, non solo come quantità, ma anche come qualità. Ci sono cosiddetti esperti che sostengono che una dieta vegana non fornisca una quantità sufficiente di amminoacidi essenziali (gli 8, dei 20 componenti proteici o amminoacidi, che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare e che devono essere assunti con la dieta). Ora, non esiste evidenza scientifica che possa mettere in dubbio che un’alimentazione basata su cereali integrali, verdure e legumi, insieme a frutta di stagione, semi e condimenti di buona qualità, non sia completa dal punto di vista proteico; in altre parole, se viene soddisfatto il fabbisogno calorico giornaliero, attraverso l’assunzione variata di alimenti di origine vegetale, si può creare una dieta totalmente priva di alimenti di origine animale, senza nessun problema di quantità di proteine (anzi, sarebbe praticamente impossibile creare una dieta senza prodotti animali che non avesse un’abbondanza di proteine), con un rapporto di amminoacidi essenziali più che adeguato.

Secondo l'American Dietetic Association (ADA), la principale associazione di nutrizionisti americani, «Le diete vegetariane e vegan correttamente bilanciate sono salutari, adeguate dal punto di vista nutrizionale e comportano benefici per la salute nella prevenzione e nel trattamento di alcune patologie.».

Sempre più studi testimoniano come un’alimentazione senza prodotti di origine animale riduca l'insorgenza di numerose patologie, come obesità, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, osteoporosi, demenza senile e tumori, che sono le prime cause di morte nei paesi industrializzati e le più difficili da curare. Questo, secondo molti studiosi, soprattutto perché l'uomo, per le sue caratteristiche fisiologiche, affini a quelle degli altri primati, come le scimmie, e assai diverse da quelle dei carnivori, come gli orsi, non è onnivoro, cioè predisposto alla digestione sia di alimenti vegetali che di alimenti animali (lo è diventato nell’odierna civiltà occidentale, ma è un’aberrazione che non rientra nel suo modo di vivere naturale), bensì frugivoro, ossia predisposto a un'alimentazione a base di frutti e di altre parti vegetali, come fusti erbacei, foglie, radici e semi. Infatti, mentre i carnivori hanno sviluppato, in modo adattativo alla loro dieta, un intestino molto breve (circa 3-4 volte la lunghezza del tronco) - che ha lo scopo di ridurre il tempo di esposizione e, quindi, il rischio di assorbimento delle sostanze tossiche, che si sviluppano durante i processi putrefattivi, cui sono soggette le proteine animali nelle condizioni di temperatura del tubo digerente - l’uomo, come quasi tutti gli altri primati, ha un intestino troppo lungo (circa 10-12 volte la lunghezza del tronco) per impedire l'assorbimento delle tossine della putrefazione.
«Noi abbiamo mantenuto le caratteristiche metaboliche fondamentali dei primati, che sono rimasti vegetariani, e il nostro organismo è programmato proprio per il consumo di frutta, verdura e legumi. Ci può indebolire una dieta priva di carne? Direi proprio di no […] Se pensiamo poi che il gorilla, così possente di statura e di muscolatura, è vegetariano come tutte le altre scimmie, possiamo senz’altro scartare l’idea che la carne sia indispensabile alla nostra alimentazione di scimmie modificate.»                 
- Umberto Veronesi -  

Sempre secondo l'American Dietetic Association (ADA), «Le diete vegetariane e vegan correttamente bilanciate sono appropriate per tutti gli stadi del ciclo vitale, inclusi gravidanza e allattamento; soddisfano i bisogni nutrizionali di neonati, bambini e adolescenti, garantendo una crescita normale, e possono anche soddisfare i bisogni di atleti a livello agonistico».

«Una persona non ha bisogno delle proteine della carne per essere un atleta di successo. Anzi, il mio anno migliore di competizione fu il primo anno in cui seguii una dieta vegan.»


- Carl Lewis, velocista e saltatore, considerato uno dei più grandi atleti di tutti i tempi –
E numerosi altri sono gli atleti vegani, tra cui, di seguito: il campione nelle gare di resistenza più dure al mondo Scott Rich, l’olimpionica di scherma e campionessa di ciclismo Dorina Vaccaroni, gli ultramaratoneti Scott Jurek e Marco Olmo, i triatleti ironman (il triathlon ironman è una disciplina che prevede 3,8km di nuoto, 180km di ciclismo e 42km di corsa) Ruth Heidrich e Brendan Brazier.
 
 


Tornando alle proteine, paradossalmente, il vero rischio del comune modo di alimentarsi è quello di assumerne troppe. L’eccesso di proteine nella dieta - dove si considera eccesso una quantità superiore ai 50g giornalieri - è uno degli aspetti più deleteri dell’alimentazione moderna. La ricerca ha dimostrato molto chiaramente che l’eccesso di proteine, soprattutto quelle di origine animale, è una delle cause principali di tutti quei problemi derivanti dalla perdita di sali minerali nell’organismo, come disfunzioni del sistema immunitario, del sistema nervoso e dell'apparato scheletrico.

Quando arrivano nel corpo, infatti, gli amminoacidi in eccesso devono essere neutralizzati, affinché la loro acidità non crei problemi, e l’unico modo che il nostro organismo ha per tamponare la condizione acida, riportando il pH del sangue al suo valore normale, leggermente alcalino, è quello di riassorbire sali minerali, calcio soprattutto, dalle sue riserve nelle ossa. Una volta neutralizzati, gli amminoacidi sono eliminati attraverso i reni, con il risultato che, non solo perdiamo riserve di sali minerali, ma anche affatichiamo questi organi: alcuni problemi, come la nefrolitiasi o calcolosi renale e l’insufficienza renale, sono ricollegabili al consumo di grandi quantità di proteine di origine animale.
La perdita di calcio e di altri sali minerali dalle ossa, il cosiddetto riassorbimento osseo, è un processo graduale, che prosegue per molti anni senza nessun segnale d’allarme prima di diventare evidente, portando a un’inesorabile diminuzione della densità ossea e causando - quando la perdita del materiale osseo originario dello scheletro raggiunge una percentuale del 50-75% - una condizione grave che prende il nome di osteoporosi. Il risultato finale dell’erosione dello scheletro è un sistema di ossa fragili, che possono fratturarsi al minimo trauma. L’osteoporosi colpisce soprattutto le donne nel periodo post menopausa, perché, con la menopausa, si assiste a un calo degli estrogeni - gli ormoni che nella donna regolano l’assunzione di calcio nell’osso - prodotti dalle ovaie. Spesso è accompagnata da un incurvamento della schiena, causato dalla debolezza della colonna vertebrale, che non è più in grado di sopportare il peso del corpo, e questo provoca, oltre a un mal di schiena cronico, una pressione sempre maggiore sugli organi interni, che ne compromette la funzionalità.

Carne, formaggi, uova e pesce risultano, quindi, particolarmente rischiosi, perché sono alimenti con un altissimo livello proteico; le proteine animali, inoltre, sono più dannose di quelle vegetali (che fra l’altro esercitano un effetto protettivo anche nei confronti di alcuni tipi di tumori e dell'arteriosclerosi), perché producono una maggiore quantità di purine (sostanze di scarto del processo digestivo, che sono alla base della formazione dell’acido urico e che sono una causa dell’acidità del sangue) e sono più ricche di aminoacidi solforati, maggiormente acidi.

Secondo una delle maggiori autorità mediche americane nel campo delle associazioni tra dieta e patologie, il Dott. John McDougall, «l’effetto delle proteine sulla perdita di calcio nel corpo umano non è una questione controversa in campo medico. I diversi studi portati avanti negli ultimi 55 anni mostrano chiaramente che, se vogliamo creare un equilibrio positivo di calcio, che mantenga le nostre ossa solide, il più importante cambiamento che possiamo fare nella dieta non è quello di aumentare l’apporto di calcio, ma di diminuire il consumo giornaliero di proteine».
Il metodo più efficace per risolvere il problema della carenza di calcio è, dunque, semplicemente quello di consumare meno proteine e soprattutto meno proteine di origine animale (eliminarle può ridurre la perdita di calcio attraverso le urine del 50%). La soluzione non è incrementare il consumo di calcio: ciò significherebbe attaccare i sintomi e non le cause, tanto più che, anche quando vengono assunte grandi quantità di calcio, più alto è il consumo di proteine e più consistente è la perdita di calcio nelle ossa; in altre parole, un eccesso di proteine porta a una forte perdita di calcio, anche nel caso in cui la fonte delle proteine ne sia molto ricca.


Alla luce di quanto esposto, la diffusissima raccomandazione di consumare più latte e latticini (panna, burro, yogurt, formaggio), per compensare la carenza di calcio, rappresenta un enorme paradosso, poiché, essendo la causa quasi sempre dovuta a eccessi che creano acidità, più latte e latticini - che sono, sì, ricchi di calcio, ma purtroppo anche di proteine e di grassi - peggiorano semplicemente il problema.   

Ne è prova il fatto che, nei paesi industrializzati, dove il consumo di latte e latticini è in costante aumento - perché si produce sempre più latte e l’industria alimentare ne spinge la vendita, servendosi di una propaganda che crea false paure - si trova l’incidenza più alta di osteoporosi e fratture all’anca. Secondo vari studi, effettuati comparando donne che consumano latte e latticini e donne che non ne consumano - tra cui l'Harvard Nurses' Health Study, in cui sono state seguite clinicamente oltre 75.000 donne per dodici anni - le ossa più fragili risultano appartenere alle donne del primo gruppo, con un rischio di fratture più elevato. Il latte e i latticini non sono dunque la risposta a una carenza di calcio: rappresentano più la causa, che una potenziale cura.

E, comunque, sono molti gli alimenti vegetali ricchi di calcio, con un contenuto addirittura più elevato degli stessi latticini: laddove il latte vaccino contiene dai 100 ai 118mg di calcio per 100g di prodotto, infatti, il cavolo ne contiene ben 249mg, le cime di rapa 246mg, il prezzemolo 200mg, i semi di sesamo fino a 1160mg, le mandorle fino a 282mg, il tofu fino a 128mg e le alghe dagli 800mg delle kombu ai 1300mg delle wakame [Fonte: Dipartimento USA dell’agricoltura e Associazione Giapponese Dietisti]. Variando la dieta e includendovi cereali integrali, verdure a foglia verde (cicoria, cime di rapa, cavolo, verza), legumi, alghe e semi, assumiamo la quantità sufficiente di calcio che necessita al nostro organismo.

In linea generale, il latte vaccino non dovrebbe proprio essere assunto come alimento dopo lo svezzamento: innanzitutto, gli enzimi necessari per digerirlo (lattasi per digerire il lattosio e rennina per digerire la caseina) diminuiscono fortemente prima dei 3 anni di età, dopodiché all’intestino arriva un latte che non è completamente digerito e che provoca abitualmente coliti, le quali sono il sintomo più comune di intolleranza al latte; in secondo luogo, la ricerca ha dimostrato che il latte vaccino, come tutti quelli animali, stimola la produzione nel sangue di una molecola, l’IGFI (Insulin-like Growth Factor I), che ha il compito di promuovere la proliferazione cellulare, e, mentre il bambino ha molto bisogno di riprodurre cellule velocemente, l’adulto no, tanté che si è visto che le persone che tendono ad avere l’IGF1 alto nel sangue sono anche quelle più a rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore, come quelli a mammella, prostata e colon; il latte e i latticini, inoltre, intasano l’intestino e il sistema linfatico e, insieme allo zucchero, come vedremo più avanti, sono la principale causa di allergie (spesso i sintomi sono subdoli e non vengono attribuiti direttamente al consumo di latte, ma molte persone affette da asma, rinite allergica e artrite reumatoide, migliorano smettendo di assumere latticini); alcune ricerche collegano, poi, l’eccessivo consumo di latticini a quasi tutte le malattie degenerative.


Simbolicamente, l’esigenza di bere latte oltre il periodo dello svezzamento rappresenta un’incapacità di crescere mentalmente e fisicamente oltre questa fase della vita. L’ideale sarebbe svezzarsi dal latte con sostituti, come le bevande vegetali (latte di soia, di riso, di avena o di mandorle), che sono altamente digeribili e non creano, quindi, problemi di intolleranze.
   
L’idea che latte e latticini siano necessari per una dieta completa va anche contro il buon senso, sia perché, ancor oggi, la maggior parte della popolazione mondiale non ne consuma affatto, sia perché nessun altro mammifero continua ad assumere latte da adulto e, oltretutto, latte di un’altra specie, il quale presenta caratteristiche molto diverse da quello umano: fra le altre cose, contiene il quadruplo delle proteine e non si tratta delle stesse; presenta un rapporto grassi saturi/grassi insaturi più alto e contiene solo da metà a un decimo delle vitamine essenziali presenti in quello.

Per esaurire il discorso sull’osteoporosi, va detto che, oltre alle proteine animali, altre sostanze creano una condizione acida, che sta alla base della perdita di calcio: sostanze, come i dolcificanti più diffusi (zucchero bianco, zucchero grezzo e miele) e i carboidrati raffinati (pane, pasta e riso bianchi), che sono stati introdotti solo recentemente nella dieta moderna e che vi hanno assunto un ruolo esagerato; essi hanno un comprovato effetto demineralizzante, con il conseguente indebolimento del sistema immunitario e incremento dell’osteoporosi. I primi sono costituiti da zuccheri semplici, mentre i secondi da zuccheri complessi.

[La differenza tra zuccheri semplici (monosaccaridi, formati da una sola molecola di zucchero, come glucosio e fruttosio, e disaccaridi, formati da due molecole, come maltosio e saccarosio) e zuccheri complessi (polisaccaridi, formati da più di due a centinaia di molecole, come gli amidi) risiede nella velocità con la quale essi vengono assorbiti: gli zuccheri semplici vengono assorbiti molto velocemente dall'intestino ed entrano in modo massiccio nel sangue, provocando un rapido e brusco innalzamento della glicemia; a questo fa seguito un'immediata scarica di insulina (l'ormone prodotto dal pancreas e deputato a mantenere stabili i livelli di glucosio), la quale ne provoca in breve tempo un abbassamento - condizione nota come "ipoglicemia" – che è mal tollerato dal cervello, il quale vive esclusivamente di glucosio, per cui ci si sente letteralmente giù di tono, a volte depressi, a volte irascibili e molto spesso con una gran voglia di mangiare dolci o altri alimenti che sono in grado di innalzare rapidamente la glicemia, come alcool e caffé; invece gli zuccheri complessi, per essere assorbiti dall’intestino, devono prima essere scomposti nelle singole molecole costituenti, le quali entrano gradualmente nel sangue, per cui i livelli di glicemia vengono innalzati moderatamente, senza sbalzi. Gli zuccheri semplici provocano, quindi, continue e brusche oscillazioni della glicemia - il cosiddetto ‘effetto yo-yo’ - che portano ad assumere, a intermittenza, calorie non necessarie, mentre gli zuccheri complessi, non solo non innescano l'effetto yo-yo, ma riescono a garantire livelli di glicemia stabili ed efficaci per le necessità dell'organismo. Un eccesso di zuccheri semplici nella dieta, che penalizza l'assunzione di zuccheri complessi, è fattore di rischio obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori e demenza.]

Lo zucchero bianco, che contiene ben il 99% di saccarosio - con tutti gli effetti deleteri citati, in primis, il brusco innalzamento della glicemia - provoca la perdita di sali minerali per vari motivi: innanzitutto, crea acidità, che, come abbiamo visto, deve essere neutralizzata dalle riserve di calcio; in secondo luogo, non è protetto - dove con protetto si intende che negli alimenti ricchi di carboidrati sono presenti sali minerali e vitamine, necessari per assimilare e metabolizzare gli zuccheri – per cui il corpo deve attingere alle sue riserve; inoltre, blocca il metabolismo del magnesio, causando così una perdita di questo minerale vitale per il sistema immunitario; infine, poiché il calcio, per essere fissato, ha bisogno di vitamine e di magnesio, causa un’ulteriore perdita di calcio. Lo zucchero grezzo e il miele hanno quasi gli stessi effetti dello zucchero bianco (contengono, da un lato, ben l’82% di saccarosio e l’86% di glucosio e fruttosio combinati, e, dall’altro, solo piccole quantità di vitamine e minerali); sono comunque da preferire allo zucchero bianco, perché questo, durante la lavorazione industriale, viene estratto e raffinato attraverso processi che portano al suo sbiancamento e che prevedono l'aggiunta di sostanze chimiche tossiche per il nostro organismo.


I dolcificanti migliori sono quelli ricavati dai cereali: malto di riso, di orzo, di miglio, di frumento, di mais; essi non solo hanno un basso contenuto di zuccheri semplici (solo il 50% di maltosio), per cui evitano gli sbalzi della glicemia, ma hanno anche il grande vantaggio di mantenere le vitamine e i sali minerali presenti nel cereale integrale, per cui, se usati moderatamente, hanno solo un leggero effetto demineralizzante. L’ideale sarebbe consumare, come fonte di sapore dolce, frutta di stagione locale (alcuni frutti, in particolare quelli tropicali, come banane, mango e fichi, sono troppo dolci e hanno lo stesso effetto dello zucchero sull’organismo) e il malto, che è molto simile per aspetto e consistenza al miele.


Gli zuccheri di pasta, riso e pane bianchi sono complessi e, quindi, sono meglio degli zuccheri semplici, ma non sono protetti, a causa della raffinazione - che provoca l'asportazione della parte esterna del chicco, con tutte le sostanze benefiche che contiene (la gran parte dei minerali, delle vitamine, delle fibre, delle sostanze fitochimiche), mentre viene risparmiato l'endosperma e, quindi, il contenuto di amido e proteine del chicco - e contribuiscono alla riduzione delle riserve di sali minerali e di vitamine nel corpo. Se il nostro organismo ha a disposizione sali minerali, oligoelementi e vitamine, che si trovano concentrati nei cibi integrali e biologici, è in grado di eliminare i veleni e di rigenerarsi; con l’uso dei cibi raffinati neghiamo, quindi, al nostro organismo la possibilità di disintossicarsi. L’utilizzo dei cereali raffinati è una conseguenza del crescente consumo di cibo animale: da quando questo è diventato il piatto forte della dieta moderna, non solo, come abbiamo visto, è diminuito il consumo dei vegetali e soprattutto di quelli a foglia verde e delle radici, ma anche l’utilizzo dei cereali si è ridotto alla forma raffinata. Se si considera la visione energetica del cibo, il processo di raffinazione, sia che si tratti di zucchero bianco che di cereale raffinato, è una dispersione delle sostanze di base dell’alimento per arrivare alla parte più ricca di carboidrati; quindi, quando consumiamo questi prodotti, l’effetto dispersivo viene trasmesso anche a noi, creando problemi non solo fisici, dovuti alla dispersione delle riserve di sali minerali e vitamine, ma anche a livello di memoria e di comportamento in generale. Gli alimenti raffinati, inoltre, analogamente allo zucchero, durante la lavorazione industriale, possono subire processi che portano all'aggiunta di sostanze, come sale, zucchero e grassi, le quali peggiorano nettamente l'iniziale composizione nutrizionale del cereale.

Altri alimenti che influiscono negativamente sulle riserve di calcio sono i prodotti da forno (biscotti, cracker, fette biscottate, etc.) di scarsa qualità, che oggigiorno vengono consumati in grandi quantità: essi sono raffinati, comportano l’utilizzo di agenti lievitanti che creano acidità e contengono una serie di sostanze chimiche, che ne permettono la conservazione, le quali devono essere neutralizzate e rimosse dal corpo, attraverso un processo che utilizza ancora una volta le riserve di calcio (tutte le sostanze chimiche ingerite sistematicamente possono avere solo effetti dannosi per la salute).    

Altri fattori acidificanti includono i prodotti provenienti da climi tropicali, come caffé, cioccolato, frutta tropicale e agrumi.

 
Il cibo è sempre stato coltivato e consumato nella stessa zona – non si consumavano alimenti trasportati per lunghe distanze; non c’erano frutta e verdura tropicali in Italia, che ha un clima temperato - ed era stagionale; il fatto di mangiare alimenti fuori stagione o importati da lontano, quindi da un clima diverso dal proprio, non fa che allontanare l’uomo dalla natura, creando problemi di salute; il cibo serve per creare armonia con la natura ed equilibrarci con l’ambiente in cui viviamo e, in questo modo, permetterci di essere in salute.

Anche i vegetali che appartengono alla famiglia delle solanacee, pomodori, patate, peperoni, melanzane, che vengono consum ati in grandi quantità dagli italiani, causano una netta perdita delle riserve di sali minerali.

L’assunzione di verdura, oggi, è al di sotto di ogni aspettativa e le verdure che vengono consumate sono quelle più ricche di acqua che aiutano a bilanciare il sapore e gli effetti del cibo animale; viceversa, le verdure a foglia verde e le radici - più ricche di sali minerali, di vitamine (cavoli e broccoli contengono più calcio del latte e molta più vitamina C degli agrumi) e di fibre - che sono quelle che più contribuiscono a creare alcalinità, non sono più richieste.

Anche gli alcolici, un eccessivo consumo di sodio e di fosforo e le sigarette sono riconosciuti come fattori acidificanti.

Infine, la vita moderna con l’inquinamento, lo stress, la sedentarietà e, di conseguenza, lo scarso contatto con la natura, aumenta ulteriormente l’acidità nel corpo 

   
Per non perdere sali minerali è, quindi, consigliabile passare quanto più tempo possibile all’aria aperta, assorbendo i raggi del sole, praticare esercizio fisico (la respirazione profonda alcalinizza il corpo), cercare di limitare lo stress (induce a una respirazione troppo superficiale, che crea acidità), ridurre i bagni caldi (o aggiungervi del comune sale da cucina, che contrasta la perdita di sali attraverso la pelle per osmosi) e le nuotate in piscina, incentivando, invece, quelle nel mare, che sono una delle pratiche migliori per integrare e mantenere una condizione alcalina.


Vitamine

Una dieta ricca di verdure, cereali integrali e legumi è naturalmente ricca di vitamine.  Sono solo due le vitamine - che poi sono anche gli unici nutrienti - che non si trovano in abbondanza nel regno vegetale: la vitamina B12 e la vitamina D, che può essere considerata più come un ormone, prodotto nel corpo sotto l’influenza del sole.

La vitamina D regola l’assorbimento del calcio nell’intestino tenue e nei reni e la sua incorporazione nel tessuto osseo. Essendo il sole a garantirci questa sostanza in quantità sufficiente, il rischio di problemi legati a una carenza di vitamina D non dovrebbe sussistere, esponendosi al sole regolarmente (sono sufficienti 20-30 minuti a viso e braccia scoperti, 2-3 volte la settimana), e solo i soggetti in cui l’esposizione alla luce solare sia inadeguata, come coloro che non possono uscire all’aria aperta e coloro che vivono in paesi situati a latitudini troppo settentrionali, come il Canada (dove l’esposizione al sole può risultare limitata, specialmente nei mesi invernali), avranno necessità di assumere cibi fortificati con vitamina D (alimenti a cui è stata aggiunta la vitamina D, come alcune bevande vegetali e alcuni cereali per la colazione) o, dietro prescrizione medica, integratori alimentari).

La vitamina B12 è, quindi, l'unica da prendere realmente in considerazione, dal punto di vista nutrizionale, quando si esclude ogni tipo di cibo animale dalla propria dieta. Nonostante la vitamina B12 esista nel mondo vegetale, c'è controversia sul fatto che essa agisca nel corpo allo stesso modo di quella proveniente dai prodotti animali. D'altra parte, esistono gruppi di vegani che non ne hanno carenza, per cui deve essere possibile attingerla solamente dal regno vegetale. I prodotti fermentati, come il miso, lo shoyu (per informazioni su questi alimenti “particolari”, consultare la sezione delle ricette) e i crauti, sono buone fonti di vitamina B12; quindi coloro che non mangiano cibo animale di nessun tipo devono assolutamente introdurli nella loro dieta regolarmente.


Fibre

Il cibo animale, a differenza di quello vegetale, non contiene fibre e questo provoca problemi digestivi, come gonfiore, meteorismo e stitichezza, da cui stagnazione nell'intestino, che può dare origine a patologie, quali appendiciti, diverticolosi, tumori al colon e al retto. Le fibre, infatti, gonfiandosi di fluidi, aumentano la massa del contenuto intestinale e, di conseguenza, l'esposizione alle sostanze dannose da esso veicolate o che si formano durante la digestione, come tossici, carcinogeni e prodotti di putrefazione, il che comporta una riduzione delle suddette patologie.

Le fibre dei cereali integrali, dei legumi e della verdura, assunte nel contesto di una dieta equilibrata, riducono anche l'assorbimento di alcuni nutrienti presenti nel cibo, quali glucosio e colesterolo, il che aiuta a contrastare, rispettivamente, il diabete e l'arteriosclerosi, nonché le forme di cancro sensibili agli ormoni sintetizzati dall'organismo a partire dal colesterolo, come quelli alla mammella e alla prostata.

Le fibre, inoltre, sono molto voluminose, permettendo così di raggiungere il senso di sazietà con l'assunzione di una ridotta quantità di calorie, il che costituisce un fattore fondamentale per la prevenzione del sovrappeso e dell'obesità.

Infine, le fibre mantengono vitale la flora intestinale, la quale è importante per un buon funzionamento del sistema immunitario.


Grassi
Quasi tutti i grassi nella dieta sono trigliceridi - che sono costituiti da 3 acidi grassi, legati insieme da una molecola di glicerolo - e colesterolo, che non contiene acidi grassi.
Il colesterolo assunto con la dieta - presente esclusivamente nei cibi animali - è tutto colesterolo in eccesso, in quanto l’organismo è in grado di produrne le quantità necessarie ai propri fabbisogni, ed è dannoso per l’organismo, contribuendo a far aumentare i livelli di colesterolo cattivo nel sangue.              

[Il colesterolo contenuto nel sangue è legato a proteine, formando lipoproteine, distinte in lipoproteine a bassa densità (LDL), che hanno il compito di trasportare il colesterolo dal fegato ai tessuti e che tendono a depositare il colesterolo sulla parete delle arterie, favorendo la formazione delle placche arteriosclerotiche, e lipoproteine ad alta densità (HDL), che svolgono la funzione opposta di rimuovere il colesterolo dalle arterie e riportarlo al fegato, ostacolando la formazione delle suddette placche. Il cosiddetto “colesterolo cattivo”, di cui si sente tanto parlare, è, quindi, quello trasportato dalle LDL, mentre il cosiddetto “colesterolo buono” è trasportato dalle HDL.]

Il colesterolo cattivo, come abbiamo visto parlando delle fibre, costituisce il maggior fattore di rischio di arteriosclerosi e, quindi, di malattia coronarica e ictus cerebrale, nonché di alcuni tipi di tumore, come quelli alla mammella e alla prostata.

Per quanto riguarda i trigliceridi, gli acidi grassi che li compongono - conferendo loro una ben precisa natura - possono essere di 4 tipi: saturi, monoinsaturi, polinsaturi e trans.

Gli acidi grassi saturi sono abbondanti nei grassi animali, come il burro e lo strutto, e in alcuni grassi vegetali, come gli oli di cocco e di palma; essi, a tempertaura ambiente, sono solidi.


Gli acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi sono abbondanti nei grassi vegetali, come gli oli non tropicali, e, a temperatura ambiente, sono liquidi. Gli acidi grassi polinsaturi delle famiglie degli Omega 3 e Omega 6 sono essenziali, non essendo l'organismo in grado di sintetizzarli, per cui devono essere assunti con la dieta 


Gli acidi grassi trans, naturalmente presenti, in quantità pari al 20% circa, nei grassi animali, sono ampiamente presenti nei grassi vegetali insaturi trasformati dal processo di idrogenazione in grassi parzialmente idrogenati, come la margarina, i quali, a temperatura ambiente, sono solidi.


Gli acidi grassi saturi sono dannosi per l'organismo, contribuendo a innalzare i livelli di colesterolo cattivo, e, infatti, la comunità scientifica identifica sempre più in essi la causa di molte malattie degenerative; in particolare, quelli contenuti nel burro e in altri latticini sono responsabili dell’aumento del colesterolo cattivo più di quelli della carne. I dati del Nurses’ Health Study mostrano che, per ogni 5% di incremento nel consumo di grassi saturi, si ha un incremento del 17% del rischio di disturbi cardiovascolari.

Gli acidi grassi trans sono i peggiori in assoluto per la salute, in quanto agiscono sul corpo come quelli saturi e, in più, sono prodotti di sintesi. Va sottolineato che i grassi parzialmente idrogenati che li contengono e i grassi che contengono acidi grassi saturi (burro, panna, strutto, oli di palma e di cocco) vengono utilizzati nella preparazione della stragrande maggioranza dei prodotti da forno (biscotti, fette biscottate, cracker, etc.) attualmente in commercio, in quanto reggono bene la cottura a elevate temperature.

I grassi insaturi, invece, non aumentano i livelli di colesterolo cattivo nel sangue; anzi, la loro assunzione, attraverso il consumo regolare di grassi vegetali, semi oleaginosi e frutta secca - che, fra l'altro, sono un'eccellente fonte di acidi grassi Omega 3 e, in alcuni casi (semi di girasole, mandorle, nocciole), di vitamina E, che protegge questi ultimi dal rischio di ossidazione - si è dmostrata importante nella prevenzione dellemalattie vascolari legate all'arteriosclerosi e di alcuni tipi di tumore.

«Il consumo eccessivo di carne è nocivo per la salute. Le cosiddette "malattie del benessere" (diabete non insulino-dipendente, arteriosclerosi, obesità) colpiscono chi abusa di pasti copiosi e ricchi di grassi animali, mentre è dimostrato che una dieta ricca di vegetali ci portegge e ci aiuta a mantenere più a lungo il nostro benessere.»                      
- Umberto Veronesi -


Il consumo di grassi, nella dieta degli italiani, si è triplicato, negli ultimi 50 anni. Per la prima volta nella storia, ci troviamo a dover fronteggiare problemi di salute, di proporzioni epidemiche, dovuti all'eccesso e all'accumulo nel corpo; i grassi, soprattutto quelli animali, infatti, quando superano il limite ragionevole, contribuiscono a formare nel corpo depositi, che rimarranno per anni, sotto forma di tessuto adiposo (il sovrappeso è un problema che affligge il 50% degli italiani), cisti, fibromi, calcoli e tumori; altri problemi dovuti a questi eccessi sono più di natura mental-emozionale: voglie, mente annebbiata, riduzione della vista, senso di attaccamento eccessivo alle cose, rabbia e nervosismo. Visti i problemi di eccessi che caratterizzano la nostra società e la quantità sempre maggiore di grassi nella dieta, la cosa più importante, in assoluto, da fare è ridurli al minimo, a partire dai grassi saturi, presenti prevalentemente nei cibi animali.

Un altro effetto dannoso è quello di rendere la linfa troppo densa e appiccicosa, rallentandone o addirittura bloccandone il flusso, per cui le difese immunitarie risultano compromesse; il sistema linfatico è un filtro per il sangue e, quando è soggetto all’effetto di cibi ricchi di grasso, nonché di zuccheri, risulta sovraccarico e non può funzionare efficientemente,

con il risultato che il sangue ha bisogno di qualcos’altro per essere filtrato e ripulito: le allergie. Esse sono il sintomo di un certo tipo di inquinamento del sangue e rappresentano semplicemente un tentativo del corpo di pulirsi regolarmente (il sintomo, secondo una visione olistica, è un tentativo di autocura del corpo): è il nostro corpo che ci suggerisce di semplificare la dieta per permettere al nostro sistema linfatico di svolgere bene il suo lavoro.                       

In modo analogo, anche l’anemia, contrariamente a quanto si crede comunemente, è sintomo di un sangue debole e non della mancanza di ferro, il quale è ampiamente disponibile nel regno vegetale, nonostante l’adeguatezza del suo apporto, nelle diete vegetariane, sia frequentemente messa in discussione: paragonando il contenuto in ferro di alcuni alimenti vegetali e di alcune carni, si vede come, per esempio, fagioli, lenticchie, soia e ceci abbiano da 6,0 a 9,0 mg di ferro/100g di prodotto, grano e miglio da 3,3 a 3,9 mg, noci, mandorle e nocciole da 2,4 a 3,5 mg, contro i 3,9 mg della carne più ricca di ferro, quella di cavallo, e i soli 1,6-1,9 mg di quella di vitellone, di maiale, di tacchino e di gallina [Fonte: Istituto


Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione]; d’altra parte, se la carne fosse la risposta all’anemia, quest’ultima non dovrebbe costituire un problema, dato l’enorme quantitativo di carne consumato nella nostra società.

Tornando alle allergie, esse sono la conseguenza inevitabile, oltre che di una dieta eccessiva, ricca di grassi e zuccheri, che causa addensamento e stagnazione della linfa, anche dello stile di vita moderno, sempre più stressante e sedentario, che ha comportato una diminuzione dell’esercizio fisico e del contatto con la natura; il liquido linfatico, infatti, per scorrere dipende dai movimenti del corpo e dalla respirazione profonda, in quanto il sistema linfatico è privo di una pompa che mantenga la linfa in movimento.

Quando il sangue è inquinato, deposita i suoi eccessi di grasso e zucchero nei tessuti vicini alla superficie o a un’apertura, dalla quale possano essere facilmente eliminati, come quelli dei condotti lacrimali, del naso e dei seni nasali, dei polmoni, dell’intestino e come la pelle in generale. Le sostanze che direttamente causano l’allergia, come il polline, la polvere, il pelo animale, le sostanze chimiche, sono solo i fattori irritanti, che causano una reazione in questi tessuti eccessivamente sensibili, i quali producono lacrime, muco, contrazione, starnuti, senso di fatica e tutte le diverse manifestazioni allergiche. Con opportuni aggiustamenti della dieta e dello stile di vita, è possibile far tornare il  sistema immunitario a un meccanismo di pulizia più dolce e permettere a queste aree troppo sensibili di diventare resistenti e immuni ai semplici stimoli quotidiani. Le allergie includono sintomi, non solo fisici, ma anche mentali (come confusione), ed emozionali, dovuti in gran parte all’effetto dei grassi sul fegato, che gioca un ruolo centrale nel loro metabolismo: quando il corpo si trova a essere intasato e ipersensibile, può accadere che molti tratti della personalità e della sfera emozionale si comportino in maniera simile al sistema immunitario, per cui ci troviamo a reagire esageratamente a semplici stimoli della vita quotidiana.

Le allergie sono una malattia moderna: la loro incidenza, negli ultimi 50 anni, è aumentata in modo allarmante in tutto il mondo occidentale e, in particolare, in Europa, dove colpiscono più di 25 milioni di persone (in Italia, più del 30% dei bambini ne soffre) e dove più di 1 bambino su 7 è affetto da asma. Non a caso, negli ultimi 50 anni, le abitudini alimentari si sono spostate sempre più verso un eccessivo consumo di cibi grassi di origine animale (in particolare latte e latticini) e di dolci (in particolare sotto forma di grandi quantità di frutta, spesso tropicale, zucchero e miele), nonché di carne, uova, cioccolato, caffé, solanacee e di tutti quei cibi che, come abbiamo visto parlando dell’osteoporosi, creano acidità nel sangue, i quali rappresentano un secondario - ma non meno importante - fattore scatenante le allergie.

L’epidemia di casi di allergie, ai giorni nostri, soprattutto fra i più giovani, è la testimonianza dell’enorme consumo di grassi e zuccheri di cattiva qualità, contenuti nei prodotti da forno, merendine, snack, patatine, gelati, etc., in commercio.

Oggi la società ci spinge sempre più a consumare cibi di scarsa qualità in grande quantità e questo messaggio è diretto spesso ai bambini, che non hanno la capacità di giudicare cosa è buono per loro; in una società intasata e in sovrappeso dovremmo, invece, incoraggiare i nostri bambini alla disciplina nelle loro abitudini alimentari.


D’altra parte, mangiando tanto cibo animale ricco di grassi, già a partire dallo svezzamento, come accade ai giorni nostri, si creano schemi difficili da cambiare, perché, quando il palato si abitua a determinati alimenti, sono quelli che poi cerca normalmente per tutta la vita, favorendo, non solo problemi di allergie e sovrappeso, ma anche problemi comportamentali, dovuti all’energia caotica posseduta da questi alimenti.

Il cibo animale - così come i prodotti da forno, il sale e lo stress - crea contrazione negli organi centrali, vicini al plesso solare, in primis nel pancreas, e questa tensione tende a far abbassare il livello di glucosio nel sangue, il quale è appunto regolato da quest’organo; questa condizione nota come ‘ipoglicemia’ è mal tollerata dal cervello, il quale vive esclusivamente di glucosio, per cui ci sentiamo letteralmente giù di tono, a volte depressi, a volte irascibili, e molto spesso con una gran voglia di assumere dolci o altre sostanze in grado di innalzare rapidamente la glicemia, come alcolici, caffé, agrumi, prodotti da forno; queste “voglie” sono comuni ai più, pur manifestandosi in modi differenti: le donne sono più attratte da zucchero, cioccolato, gelato e grandi quantità di frutta, spesso tropicale, gli uomini da alcolici e caffé, i bambini da bibite e caramelle.

Una dieta basata su cereali integrali e legumi (composti entrambi principalmente da carboidrati complessi e protetti), verdure (soprattutto quelle dolci, come zucca, carote, cipolle e cavoli) e frutta di stagione, con l’aggiunta di malto come dolcificante principale, fornisce un’abbondanza di carboidrati, per tenerci svegli e vitali, senza quei rischi di indebolimento che, invece, molti dolci e prodotti raffinati procurano. Più ci si orienta verso una dieta equilibrata ed energetica di questo tipo e verso una cucina dinamica e bilanciata, più si sarà attratti da altri ingredienti sani ed equilibrati e le “voglie” diminuiranno gradatamente.
Ogni cultura possiede una comprensione dell’energia del cibo e dei suoi effetti sull’organismo: sono ancora patrimonio di molte popolazioni gli alimenti e gli stili di cottura più adatti nelle diverse stagioni, nel caso di malattie e gravidanze, per la produzione di buon latte materno, etc..

Indirizzandosi progressivamente verso una dieta vegana, variata ed equilibrata, si possono sperimentare significativi miglioramenti nel livello di energia e nella sensazione di benessere e, giorno dopo giorno, s’incominceranno, a notare anche delle differenze nello stato mentale ed emozionale, perché il corpo e la mente sono connessi e di fatto indivisibili: una dieta vegana bilanciata garantisce un equilibrio di base e dà benefici anche alla mente e allo spirito, generando chiarezza mentale e stabilità emotiva. Va, inoltre, aggiunto che questo tipo di alimentazione rappresenta un complemento perfetto per  qualsiasi terapia della medicina tradizionale o alternativa, cui si scelga di sottoporsi, e, se seguito sotto la supervisione di un esperto in materia, che può capire i sintomi e personalizzare i suggerimenti, è in grado di risolvere diversi problemi.
                                                                                                                                               
Concludendo, si può constatare come la dieta moderna, basata in maniera preponderante sul consumo di cibo animale, oltre che di zuccheri semplici, si sia notevolmente allontanata dai bisogni effettivi dell’organismo e dall’equilibrio generale del pianeta e come, prima dei cambiamenti del secolo scorso che hanno portato alla sua comparsa (in Italia il consumo di carne è aumentato di oltre il 300% in 50 anni, così come il consumo di zucchero, nello stesso periodo, si è quintuplicato, passando da 7kg all’anno a persona a 35kg), esistesse un modo tradizionale di nutrirsi, del tutto naturale, comune alle diverse culture nel mondo, fondato principalmente sull’utilizzo di cereali integrali (in Asia riso, in America mais, in Africa settentrionale cuscus, in Africa centrale e meridionale miglio e sorgo, nell’Europa mediterranea frumento, nell’Europa settentrionale orzo, segale e miglio, in Russia grano saraceno), verdure di stagione e legumi, con un minimo o addirittura nullo apporto di cibo animale (altri modelli universalmente accettati riguardavano il consumo di una zuppa ogni giorno, di semi, di condimenti di buona qualità e di frutta di stagione come dessert, nonché l’impiego di una grande varietà di stili di cottura). E questo è anche lo schema alimentare che per migliaia di anni è stato seguito in Italia, quando si doveva contare principalmente sulle verdure e sulla frutta che crescevano in loco. Queste tradizioni alimentari, create dai diversi popoli, nell’arco di millenni e in totale isolamento l’uno dall’altro, hanno permesso all’uomo di dar vita a grandi culture e di esprimere al meglio le sue potenzialità.





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Riflessioni sul benessere animale e le problematiche ambientali connesse” Tesi di laurea triennale di Eva Chiara Carpinelli

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